lunedì 27 gennaio 2014

L'action painting di Jackson Pollock

"Non dipingo su un cavalletto. Preferisco fissare le tele sul muro o sul pavimento. Ho bisogno dell'opposizione che mi dà una superficie dura. Sul pavimento mi trovo più a mio agio. Mi sento più vicino al dipinto, quasi come fossi parte di lui, perchè in questo modo posso camminarci attorno, lavorarci da tutti e quattro i lati ed essere letteralmente "dentro" al dipinto. Questo modo di procedere è simile a quello dei "Sand painters Indiani dell'ovest".
Jackson Pollock (Cody, 28 gennaio 1912 -  Long Island, 11 agosto 1956)


Il momento culminante dell'arte di Jackson Pollock è il decennio che intercorre tra il 1946 e il 1956, anno della morte improvvisa in un incidente automobilistico. Per raggiungere il massimo dell'espressione soggettiva e della gestualità, Pollock abbandona la stesura del colore con il pennello e si serve della cazzuola, di bastoncini o addirittura del "dripping"        ( sgocciolamento): lascia sgocciolare il colore dal pennello sospeso e vibrante, o da un barattolo, sulla tela, non più appoggiata verticalmente al cavalletto ma adagiata a terra.
Le sue opere sono tele di grandi dimensioni, tali da permettere quanto più possibile la rapidità del gesto e quindi l'automatismo. Certo è quasi possibile raggiungere l'automatismo puro, dipingendo come in trance: qualunque direzione prenda il gesto, è pur sempre dovuta alla volontà dell'autore. Perfino la casualità dello sgocciolamento  e della macchia deriva dal modo in cui l'artista muove il corpo e il braccio; importante è far sì che questa scelta sia istintiva e non preventivamente meditata. Nell'età moderna riaffiora continuamente la tesi romantica dell'arte come espressione dell'individuo, anzi del "genio" che crea liberamente, per ispirazione improvvisa, quasi senza rendersene conto:"quando sono nel mio dipinto - scrive Pollock- non sono più consapevole di quello che faccio".
Nascono così  i suoi quadri, intrisi di linee e di colori, tumultuanti espressioni interiori , cui è del tutto estraneo il limite della cornice e ciò che essa ha sempre significato, ossia l'imposizione al dipinto di un'inquadratura che lo rende in pratica una veduta al di là di una  "finestra". Questo tipo di opera si pone infatti con totale continuità oltre quei limiti anche grazie all'ampiezza della sua superficie, che elude la capacità di controllo dell'osservatore.
E' opportuno evidenziare che anche in Pollock, talvolta, le forme, pur apparendo inesistenti nella realtà esterna come viene percepita a occhio nudo, le appartengono; ciò è visibile quando se ne osservano alcuni particolari ingranditi per mezzo del microscopio, secondo in collegamento fra artista e mondo circostante che forse è inconscio, ma che è ugualmente interessante.











Dino Buzzati, Inviti superflui, in "Sessanta racconti"

Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. "Ti ricordi?" ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da pioggia sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti ricordi?", ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti "Che bello". Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti "Che bello!", ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.
Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sè una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu - lo capisco bene - invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo.
È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare - ti prometto - gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.
Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.


Dino Buzzati (San Pellegrino di Belluno, 16 ottobre 1906- Milano, 28 gennaio 1972)

Dino Buzzati nacque a San Pellegrino nel 1906, ma visse quasi sempre a Milano. Formatosi durante gli anni del fascismo, rimase fondamentalmente estraneo alla retorica del regime, mantenendosi sempre fedele ad un'analisi dell'uomo in chiave esistenziale. Tale predisposizione umana e artistica, superando la contemporanea esperienza neorealistica, più portata a vedere l'uomo nella crudezza del vivere quotidiano, fra lotta partigiana e miseria del dopoguerra, lo spinse a saldarsi con la tradizione surrealistica novecentesca. Egli recuperava la linea del fantastico e dell'assurdo che, già presente nell'Ottocento con Poe, si riproponeva nel Novecento con Kafka prima e con Borges dopo.
L'uomo di Buzzati, più che storico, si può definire metastorico. E' l'uomo colto nell'eterno mistero della sua vita, nell'estenuante attesa di un evento che possa avere un effetto liberatorio sul suo destino di solitudine. L'approccio a tale problematica trovava immediato riscontro nella nativa sensibilità dello scrittore, anche se una certa influenza potrebbe avere avuto l'infanzia trascorsa nel silenzio contemplativo delle montagne del bellunese. Di contro si poneva il monotono lavoro di giornalista presso il "Corriere della sera", che funse comunque da spinta esterna per accrescere lo spirito meditativo sulle ansie dell'uomo e sui suoi desideri inappagati.
E su quest'onda magico - fiabesca che si sono sintonizzati i suoi romanzi e i suoi racconti (Barnabò delle montagne, 1933; Il segreto del Bosco Vecchio, 1935; Il deserto dei Tartari, 1940; I sette messaggeri, 1942; Paura alla Scala, Il grande ritratto, 1960; Un amore, 1963; Il colombre, 1966; la boutique del mistero, 1968).
Buzzati abbinò l'attività di scrittore a quella di curatore di testi per il teatro e la televisione. Sensibile alla realtà dell'immagine e in modo particolare del fumetto, pubblicò nel 1969 un Poema a fumetti.

Era così bello....

"Io sono uno che sorride di rado, questo è vero, ma in giro ce ne sono già tanti che ridono e sorridono sempre, però poi non ti dicono mai cosa pensano dentro".
- Luigi Tenco




Un desiderio vago di cose ignote...

Le cadeva addosso una malinconia dolce, come una carezza lieve, che le stringeva il cuore a volte, un desiderio vago di cose ignote.

Giovanni Verga, Mastro Don Gesualdo

                                                Ritratto di Giovanni Verga



"La Voce", rivista fondata da Giuseppe Prezzolini

Il periodico "La Voce", fondato da Giuseppe Prezzolini, appare a Firenze nel dicembre 1908. Nel gruppo redazionale, oltre a Prezzolini, si ritrovano fra gli altri Giovanni Papini e Ardengo Soffici, il modernista Romolo Murri, lo scrittore Scipio Slataper e i liberaldemocratici Giovanni Amendola e Gaetano Salvemini. Tra i collaboratori, vi sono tantissimi personaggi di notevole spessore intellettuale, accomunati tutti dall'insoddisfazione verso l'Italia giolittiana e da una confusa ansia di novità.
Nell'editoriale di presentazione della rivista, scritto da Prezzolini,  si afferma l'intento di essere onesti e sinceri.
Questa sincerità, collocata fin da subito al centro del programma della "Voce", si tradurrà, in gran parte degli scrittori "vociani", in una sostanziale propensione all'autobiografismo; mentre l'onestà, di cui parla Prezzolini, imprimerà alle confessioni dei vociani un'inconfondibile cifra di lucida e radicale moralità.
"La Voce" esprime una forte esigenza di rinnovamento della cultura italiana entro una dimensione europea, nella prospettiva di un più ampio progetto di politica culturale globale.
Centrale fin da subito è l'impegno filosofico della rivista, che si mostra aperta ad una molteplicità di tendenze di pensiero, da Marx a Sorel, dal pragmatismo americano all'idealismo crociano.
Accanto a questioni teoriche, vengono discussi anche problemi più drammatici della realtà italiana del tempo: assai ampio, ad esempio, èlo spazio riservato alla questione meridionale. Nel 1914 "La voce" si scinde in due riviste distinte: da un lato "La Voce letteraria" sotto la direzione di Giuseppe De RObertis; dall'altro "La Voce politica", periodico di propaganda interventista, antigiolittiana e antisocialista, diretto da Prezzolini, che chiuderà le pubblicazioni solo dopo un anno.
"La Voce Letteraria" di De Robertis assume invece un profilo di disimpegno politico, dichiarandosi a favore dell'arte per l'arte, ossia del valore puro dell'espressione poetica. De Robertis, in particolare, sostiene il frammentismo lirico, cioè un'espressione poetica essenziale, in polemica con l'uso sovrabbondante della parola tipico dei dannunziani e dei futuristi.

                                       Giuseppe Prezzolini

Dal Diario di Anne Frank

"Ecco che cos’è difficile in quest’epoca: gli ideali, i sogni e le belle aspettative non fanno neppure in tempo a nascere che già vengono colpiti e completamente devastati dalla realtà più crudele. È molto strano che io non abbia abbandonato tutti i miei sogni perché sembrano assurdi e irrealizzabili. Invece me li tengo stretti, nonostante tutto, perché credo tuttora all’intima bontà dell’uomo.Mi è proprio impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria e della confusione. Vedo che il mondo lentamente si trasforma in un deserto, sento sempre più forte il rombo che si avvicina, che ucciderà anche noi, sono partecipe del dolore di milioni di persone, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto tornerà a volgersi al bene, che anche questa durezza spietata finirà, e che nel mondo torneranno tranquillità e pace. Nel frattempo devo conservare alti i miei ideali, che forse nei tempi a venire si potranno ancora realizzare!”
Anne Frank, Diario- Einaudi